Il compianto dott. Alfio Englaro nella introduzione al suo compendio della storia della Carnia intitolato “Paluzza in Carnia-Cronistoria breve” citando Gramsci scriveva: “la storia insegna ma non ha scolari”.
Non vorrei che ci venisse una conferma da come si sta affrontando il problema derivato dalla frana che il 2 dicembre 2023 ha chiuso la strada per il Passo di Monte Croce Carnico. Dalla storia ci viene un insegnamento sull’importanza fondamentale del passo per la Carnia e quindi della urgenza della sua riapertura, ma ci vengono anche ammaestramenti a non ripetere gli errori che si sono commessi in passato alla ricerca della soluzione migliore per salire al passo.
Nella introduzione alla mia storia della Carnia, uscita l’anno scorso per Biblioteca dell’Immagine in una seconda nuova edizione, scrivo che:
«Nel mio racconto, la storia della Carnia si sviluppa avendo come asse portante la strada per il Passo di Monte Croce Carnico. Ci sono momenti nei quali il Passo diventa luogo di transito e di comunicazione tra il Centro Europa e l’Adriatico, Coincidono con i momenti positivi di sviluppo economico, sociale culturale della Carnia. Ci sono momenti nei quali vengono privilegiati altri percorsi di collegamento come il Canal del Ferro. Il Passo perde allora importanza e il territorio diventa un imbuto. L’economia ne risente, ne risente quindi il modo di vivere di chi vi abita, ne risente l’atteggiamento culturale.»
In questa ultima frase, c’è il rammarico per la scommessa che non abbiamo saputo vincere trasformando il passo in una cerniera di collegamento tra Carnia e Carinzia, tra Italia e Centro Europa, quando, negli anni ottanta del secolo scorso si era immaginato di eliminare il passo traforando la montagna. Quando sull’idea ci si era spesi ottenendo la garanzia di finanziamento da parte dello Stato.
Fallita l’idea, per la indisponibilità della Carinzia che ha preferito la direttrice delle Caravanche, anche culturalmente ci si è chiusi a crogiolarsi nel lamento di essere ai margini, estrema periferia dell’Italia.
Paradossalmente il “tunnel” che avrebbe ridotto a 67 Km la distanza tra Lienz a Tolmezzo (con cui si stava cercando il gemellaggio!), avrebbe potuto trasformare la Carnia dall’imbuto in cui ora si sta chiudendo a”lacrimare invano”, in un ponte aperto ai venti (culturali ed economici) della Mitteleuropa.
(Sarà un caso il fatto che anche il grande Jacopo Linussio si sia formato facendo il garzone in Austria!…)
«No l’è un mal ca nol seti encie un ben» si dice in Carnia, «non c’è fatto negativo da cui non si possa ricavare qualcosa di positivo». E se, alla luce di questo detto, la frana, mettendo in evidenza gli errori del passato, avesse riproposto come attuale il progetto?
Lo pensano in molti! E val la pena di pensarci e di crederci! Val la pena di crederci “In Carnia”, a partire da Paluzza, ora che pare di capire ci credono in Carinzia, a partire da Mauthen, come confermerebbe un documento di adesione al progetto del traforo sottoscritto da ben 73 sindaci.
Sono comunque sufficienti pochi mesi per verificare se esistono concretamente le possibilità tecniche e finanziarie, per realizzare l’opera, nella soluzione radicale del traforo che parte da Timau, o in quelle intermedie e del “tunnel dell’apice”.
Nel caso però si debba purtroppo prendere atto che per qualche motivazione tecnica, finanziaria o anche ambientale, il traforo non si può fare, non è il caso di perdere tempo inseguendo un sogno. Non è il caso si perda tempo a scrivere un nuovo capitolo della favola che ha riassunto molto bene l’ing. Carpenedo nel capitolo intitolato “Il traforo” nel libro “La strada di Monte Croce Carnico”, edito a cura del circolo culturale Enfretors di Paluzza.
Per l’importanza che la storia assegna al passo, si deve ripiegare subito a considerare ciò insegna la storia della viabilità per raggiungerlo.
Il passaggio è stato scoperto dai Carni, come via dal Centro Europa all’Italia. Ma lo conoscevano anche gli Etruschi e prima ancora i Veneti e i Liguri. Venendo da nord non creava difficoltà, ma sono stati i Romani che hanno preso a utilizzarlo per andare dalla penisola italica al Norico, a doversi scontrare con le difficoltà che comporta la salita dalla Valle del But.
Le tre iscrizioni che ci sono rimaste, scolpite sulle rocce del percorso, studiate tra gli altri da Domenico Molfetta nel libro “La Via Commerciale di Monte Croce Carnico e l’antico Mercato”, testimoniano che, nei quattro secoli di vita come strada romana, è stata soggetta a complessi lavori di manutenzione, con modifiche del percorso per superare le rocce del Malpasso da un lato (un nome che già dice tutto!) o , dall’altro lato per evitare le cadute massi dal Pal Piccolo.
Comunque i Romani, avevano cercato di tenersi sul versante opposto al Pal Piccolo, è stato il Genio Militare, nel primo dopoguerra, per individuare un percorso al riparo dai tiri d’artiglieria nemica, ad avere la idea rischiosa di intaccare con i tornanti di una strada, le pareti di questa montagna.
La montagna è diventata così “una bomba ad orologeria” come scrive Corrado Venturini il geologo nato a Timau, che, per raggiunti limiti d’età, ha da poco lasciato all’Università di Bologna la cattedra che era stata di Michele Gortani.
Per il giornale di Timau “Asou Geats” ,senza mezzi termini., a proposito della frana in atto, ha scritto che “ il fatto che non ci siano state ancora vittime, configura l’evento come un monito lanciato dalla montagna e dalle sue rocce. Un avvertimento per chi avesse intenzione in futuro di insistere pervicacemente nel riattivare quel medesimo tragitto sperando, ingenuamente, di rendere stabile il versante. Un versante lungo il quale ulteriori numerosi ordigni a tempo attendono solo di concludere il proprio conto alla rovescia”.
Le conclusioni a cui arriva il geologo, credo sconsiglino qualsiasi tecnico dal mettere la firma, su qualsivoglia progetto di riattivazione e sistemazione dell’attuale percorso,
Del resto, lo stesso ingegnere Carpenedo che come tecnico, con qualche anno di meno, potrebbe essere chiamato a garantire con la sua firma il futuro della strada, come scrittore, nel suo pregevole lavoro di ricerca storica intitolato “la strada di Monte Croce Carnico” pubblicato dal Circolo Culturale Enfretors di Paluzza, senza mezzi termini, a proposito della strada costruita sulle tracce di Lequio dalla impresa Paladini scrive che “venne costruita una strada molto bella nel posto sbagliato. In quel versante la caduta di massi, a volte di grandi dimensioni, provenienti dalle bancate calcaree verticali e persino a franapoggio che sovrastano la strada, è inarrestabile.”
Se cosi è, non resta che fare tesoro dell’esperienza del romani e individuare un percorso per salire al passo, dal versante opposto al Pal Piccolo. Con le conoscenze tecniche e i mezzi che i Romani non avevano, non dovrebbe essere diffcile. Mentre, per quel che scrivono i geologi, l’idea di riattivare la strada esistente c’è il rischio finisca in una quarta lapide con il detto latino “operam ed impensam perdidi – ho sprecato soldi e lavoro”. Senza dar conto del tempo perso inutilmente!
Leggo sulla stampa dell’esistenza già di due proposte progettuali che interessano il versante della strada romana: una la strada definitiva in alternativa al traforo, l’altra una pista forestale.
Non ho le competenze tecniche per esprimermi al riguardo ma mi piace pensare che si dia da subito l’avvio ai lavori per la strada forestale, propedeutica alla nazionale. Se realizzata con i criteri imposti dalla UE e che si vedono applicati nelle recenti strade agro-forestali, attiverebbe comunque un collegamento seppure provvisorio con la Carinzia, e potrebbe essere utilizzata anche come strada di cantiere per la strada principale.
Per i finanziamenti la strada forestale potrebbe essere di competenza regionale e quindi immediatamente cantierabile, mentre quella definitiva dovrebbe rifarsi a finanziamenti nazionali, essendo indubbio il carattere di strada nazionale a valenza internazionale che ha la strada per il passo di Monte Croce.
Lo spiegava già molto bene Giuseppe Marchi nell’esposto (che giustamente l’ing. Carpenedo ha voluto riportare in forma anastatica in appendice al suo libro) quando, all’inizio del secolo scorso, richiedeva un intervento dello Stato per riattivare una strada, che dopo secoli di incuria, era ridotta a poco più che un sentiero.
Alla fine con la tecnica di due piccioni con una fava, avremo una bella strada sicura che si connette al tratto che scende a Mauthen, già messo in sicurezza dagli austriaci, e un pista ciclabile a grande valenza storico-paesaggistica perché, realizzata d’intesa con la Sovrintendenza archeologica, potrebbe riportare in luce e valorizzare altri resti della strada romana, oltre a quelli esistenti.
Da un lato una strada che riporta la Carnia al ruolo di ponte tra l’Europa e il mare, recuperando la visione lungimirante dei Romani che ha favorito a suo tempo lo sviluppo di Iulium carnicum. Dall’altro, un circuito ciclabile di valenza internazionale che collega Tarvisio a Tolmezzo attraverso la valle della Gail, e unisce la valle del But al Canal del Ferro valorizzando ancor di più la ciclovia Alpe Adria.
Il fatto che la pista provvisoria, possa restare definitiva come ciclabile, in entrambe le soluzioni, sia quella del traforo che della variante della strada romana, ne determina la priorità assoluta, da cantierare immediatamente, a prescindere da qualsiasi discussione. La fortunata coincidenza che il Consorzio Boschi Carnici abbia la proprietà su parte dei terreni che sarebbero interessati dalla pista, potrebbe fare del Consorzio il naturale soggetto deputato a realizzare l’opera.
Il suggerimento che viene dalla storia è quello di mettere assieme lungimiranza e urgenza. Binomio non facile da realizzare in politica! Ma non è detto che questa non possa essere la volta buona!…