Le tre iscrizioni su roccia che testimoniano gli interventi a modifica della viabilità verso il passo di Monte Croce Carnico sono state studiate da esperti archeologi. Marinelli nella sua guida della Carnia ricorda che il primo a segnalare la loro presenza e a darne una interpretazione è stato “il Pigafetta nel 1580 e più tardi con maggiore cultura Floriano Morocutti nel 1727 dopo di che esse furono lette con graduali miglioramenti da Grassi (1780 circa), Siauve (1808). Ankershofen (1834) Majer (1858) Cumano (1869) e finalmente da Momsen, Gregorutti, Giovanni Gortani e Sticotti”. Più recentemente sono state esaminate da Koban, Placida Moro, Flavia Mainardis, e Flaviana Oriolo. E forse dimentico qualcuno.
Per questo non posso pensare di poter far meglio di loro esaminando i testi con nuove lenti, ma senza la loro competenza.
Mi piace invece pensare che le epigrafi non siano state esaminate alla luce della storia, e quindi mi permetto un esame con questa lente.
A pag. 54 della mia Storia della Carnia riporto il passo della storia di Quintiliano Ermacora nel quale si dice che:
fu proprio Giulio Cesare a curarsi di rendere transitabile, attraverso quel monte, la strada che prima presentava non poche dificoltà. Chiara testimonianza di questo fatto sono alcune lettere incise in un grande sasso quasi a metà della salita del monte che dicono appunto« Julius Caesar hanc viam inviam rotabilem fecit- Giulio Cesare rese carrabile questa strada impraticabile.»
A ulteriore conferma Ermacora riporta il passo del De Bello Gallico nel quale Cesare racconta d’aver preso due legioni che svernavano ad Aquileia e d’aver raggiunto la Gallia ulteriore per il percorso più breve qua proximum iter in ulteriorem Galliam per Alpes erat. In verità, leggendo con più attenzione il testo di Cesare, senza il desiderio di farne un documento a conferma dell’importanza del passo tra la Carnia e la Carinzia, come mi suggerisce l’amico Odino, si capisce che Cesare racconta di come, anche con le legioni raccolte ad Aquileia, abbia attraversato poi tutta l’Italia settentrionale per avere un primo scontro con i Galli ad Ocelo, identificato con Avigliana nei pressi di Torino.
Comunque Ermacora, notaio e personaggio della vita politico-amministrativa di Tolmezzo alla fine del 1500, può anche aver interpretato male il passo di Cesare, ma non può essersi inventato la esistenza della iscrizione sulla strada di Monte Croce.
Allude a qualcosa che gli è noto, non solo per sentito dire, quando riporta le parole “magno incisae saxo” scolpite in un grande masso. Per questo non sono d’accordo con il Marinelli che nella sua Guida della Carnia a proposito di questa scritta parla di “una fantastica epigrafe opera di qualche mezzo letterato del sec. XV”.
Peccato che non si trovi questa iscrizione, forse perché ricavata in uno dei tanti grandi massi magno saxo precipitati dal Pal Piccolo e fatto poi rotolare da qualche piena o sepolto da qualche frana.
Ma è comunque fuori di dubbio che i Romani, con Augusto se non con Cesare, abbiano reso carrabile questa strada, vista il rilievo che aveva il passaggio verso il Norico ai loro tempi che trova conferma proprio nella importanza e nello sviluppo di Iulium Carnicum.
I resti portati alla luce ci dicono che si trattava di una cittadina che si è sviluppata molto nel I° secolo a.C. come rileva Placida Moro, proprio in coincidenza con l’entrata del Norico a far parte dell’Impero romano, e quindi in dipendenza della strada che collegava l’Italia all’attuale Austria.
Le dimensioni delle piazza/foro 75×40, la basilica/centro civico a due piani di 40m. per 10, le terme, l’acquedotto sono sufficienti a darci l’immagine della imponenza dell’insediamento. Grandezza inspiegabile, vista anche la non felice ubicazione, che si legittima solo per la funzione di punto di riferimento e di appoggio per il passo.
L’importanza della cittadina ci dice l’importanza della strada al cui servizio si era sviluppata. La qualità urbanistica e architetonica del paese ci dice la qualità della strada “imperiale”, con la massicciata e i manufatti tipici della grandi strade romane.
Peccato che di questa strada non si trovi traccia, se non nelle tre iscrizioni che si vedono ancora, ma sono iscrizioni che riguardano i rifacimenti, non l’opera originaria. Nel periodo di decadenza non di quello del massimo splendore di Roma
La prima, nota come Respectus, è fatta risalire al 170 d.C. quindi a dopo la distruzione di Julium Carnicum ad opera dei Quadi e Marcomanni. Ricordo infatti a pag. 64 che “nel 167 d.C. sotto l’imperatore Marco Aurelio si formò una coalizione di tribù germaniche che, sconfitti i Romani a Carnuntum, imboccò la via dell’ambra e giunse in Italia attraverso il passo di Monte Croce. Distrutta Julium Carnicum senza difficoltà, assediarono senza successo Aquileia, per spostarsi poi e prendersela con Oderzo che rasero al suolo”
Sappiamo dalla storia di Roma che questi barbari furono poi respinti da Marco Aurelio ed è logico pensare che, in ritirata, abbiano distrutto tutto ciò che poteva rallentare l’inseguimento, in particolare i ponti. Furono così senza dubbio distrutti i manufatti che i Romani avevano realizzato per rendere carrabile la salita al passo. Tant’è che, come si intuisce da ciò che si può leggere nella prima iscrizione, tale Respectus servo villico (cioè agente) di Tito Giulio Perseo appaltatore delle gabelle illiriche, secondo lo Sticotti “addetto alla stazione doganale di Gemona”, fu chiamato a riattivare la transitabilità della strada.
Vi provvide in particolare realizzando un ponte come si deduce dalla seconda epigrafe nella quale si legge bene che perilcitante populo ad pontem transitum non placuit al popolo non andava a genio di transitare sul ponte a rischio e pericolo.
Da questa epigrafe si ricava che 130 anni dopo nel 300 ca. d.C, un tale Hermia che si descrisse “susceptor operis aeterni – impresario di un’ opera eterna”, pensò di aver risolto definitivamente il problema,
Il ponte di Respectus era di legno mentre Hermia rifà quello di Cesare che era in muratura? Mi pare plausibile!
Ma quale era questo ponte?
Il tracciato più logico della strada di Cesare è quello che venendo dalla strada romana che arrivava da Iulium Carnicum in sponda destra del But saliva attraverso l’attuale strada che porta a Malga Val di Collina. La lasciava ad un certo punto per attraversare la montagna in quota, verso il passo di Monte Croce, al tornante ove ora incrocia la mulattiera che sale come sentiero cai 161.
Nell’attraversata però si presentava il problema del superamento del costone roccioso noto come Malpasso o Scaletta. La soluzione che anche oggi si può immaginare è quella d’un ponte in salita.
Probabilmente in legno quello di Respectus sostituito con uno in muratura da Hermias, rifacendo quello di Cesare demolito dai Barbari. Così si può spiegare l’enfasi che mette nella epigrafe che mette alla conclusione del suo lavoro consistente appunto nella sistemazione della strada romana su cui era già intervenuto Respecuts, con il rifacimento del ponte e qualche correzione nella parte sommitale nel Chiampeit, da dove la fece per poi proseguire verso il passo addossata per quanto possibile alle pendici del Cellon dove collocò la sua inscrizione, convinto d’aver fatto un’opera a sfidare la storia.
Per Placida Moro che fa sua la cartina riassuntiva di Koban (nella foto sotto), l’intervento riguardante il ponte non sarebbe avvenuto, come penso io, al Malpasso ma nelle varianti introdotte nell’ultimo tratto: “La nuova strada ad evitare il precedente passaggio del ponte poco sicuro, deviava a sinistra del valico, subito dopo la roccia da cui era protetta, raggiungendo l’altura a destra del rio Collinetta”.
Anche per Molfetta si trattava d’un ponte per attraversare il rio Collinetta.
Seguendo lo Sticotti invece si è pensato a un marchingegno per superare il Malpasso, il pons sublicius ponte sostenuto da pali. Io propendo per questa ultima ipotesi, senza però pensare a strani marchingegni ma a un ponte ad una arcata in salita.è
L’attuale sentiero al Malpasso infatti sale zigzagando tra due rocce che possono essere viste proprio come la spalletta di un ponte. Una più bassa ed una più alta con un dislivello tra le due di 15 m. ca. e una distanza fra loro di una ventina di metri. Modificare le quote per ridurre la pendenza e unire le due spallette con un ponte, credo sia stato problema alla portata degli ingengeri romani. E tanto più alla portata degli igegneri moderni con un costo, ritengo, inferiore a quello che comporterebbe l’attraversamento del costone di roccia in galleria.
Come lo è stato poi alla portata dir Hermia che si riteneva “fides operisque paratus – preparato dal punto di vista della fiducia in sé e di quello delle competenze tecniche” , in altra parole d’uomo di fede e di ingegno e che per questo “unanimes omnes hanc viam explicuit – nel compiacimento generale rimosse gli ostacoli di questa via”
Sottolinea opportunamente: «Gli ostacoli di questo percorso, non di altri!»
Ma, a questo punto, il fatto nuovo che cambiò in seguito anche la pospettiva della strada del passo fu la divisione in due parti dell’Impero Romano, quello di Occidente e quello di Oriente.
Come scrivo a pag 68, “Il fatto ebbe un rilievo importante anche per la Carnia. Per la prima volta infatti sulle Alpi Carniche si stabilizzò un confine: il limite che divideva la Provincia della Venetia ed Istria da quello della Pannonia inferiore”
Un confine concordato, che non doveva passare, come ora, sulle creste delle montagne, ma per il quale presumibilmente si scelse come “stazione di confine” la spianata che non a caso porta ancora il nome di “vecchio confine”.
È il luogo dove si trova la terza epigrafe! Che quindi va letta in questo nuovo contesto.
Per inquadrare la terza epigrafe e completare la ricostruzione del percorso della strada romana, penso di debba tornare alla storia, per ricordare che nel IV secolo d.C. quando Diocleziano e i suoi successori pensarono di dividere in due parti l’Impero romano, per renderlo più gestibile, qui passava il confine tra l’Impero Romano, quello di Occidente e quello di Oriente.
Come scrivo a pag 68, “Il fatto ebbe un rilievo importante anche per la Carnia. Per la prima volta infatti sulle Alpi Carniche si stabilizzò un confine: il limite che divideva la Provincia della Venetia ed Istria da quello della Pannonia inferiore”.
Il confine tra la Diocesis Pannoniarum ricompresa, nell’Impero d’Oriente, e la Diocesis Italiciana facente parte dell’Impero d’Occidente. In effetti non ci sono elementi storici sufficienti per definire il confine tra le due parti. Gli storici infatti si dividono sulla possibilità di ritenere la Pannonia facente parte dell’Impero d’Oriente o d’Occidente.
In mancanza di elementi certi anche il fatto che si sia finalmente sciolto l’equivoco per cui si attribuiva il nome di Mercato Vecchio alla spianata sottostante la casa canoniera, dove si trova l’epigrafe potrebbe aiutare a definire la controversia.
Tutti gli storici locali convengono ormai che il termine timavese oltn markt che è stato tradotto con Mercatovecchio va invece tradotto con “vecchio confine”.
A mio avviso il confine tra i due imperi. Io infatti convengo con il Paschini che nella sua storia del Friuli (pag 54) scrive che Valetiniano I, tenendo per se l’Occidente (e perciò anche Aquileia) affidò l’oriente con la Tracia al fratello Valente. Quell’”anche Aquileia” mi fa pensare che il grande storico del Friuli propendesse per considerare il territorio d’Aquileia e quindi il Friuli, territorio al limite, appunto al confine.
Paschini riferisce di un passaggio di Valentiniano ad Aquileia di ritorno da Sirmio capitale della Pannonia. Non è da escludere sia rientrato da Monte Croce e come scrive Marinelli “ lasciò traccia di sé “nel nome di val Valentina, assunto dal torrente , che appena oltre il passo scende verso la Zeglia”.
Non a caso Placida Moro fa notare la stranezza di una iscrizione a metà strada, quando, (come le altre), di norma si collocavano alla fine dei percorsi che volevano celebrare.
La possibile e verosimile spiegazione sta nella presa d’atto che nel 373, sotto gli imperatori Valentiniani, qui c’era il confine.
Confermato dal fatto che proprio Valentiniano I (morto nel 375) come scrive anche il Paschini “tenendo per se l’Occidente (e perciò anche Aquileia) affidò l’oriente colla Tracia al fratello Valente” (Non a caso nell’epigrafe sono citati entrambi!…)
E qui, al confine appunto, si fermò Apinio Programmazio, con la nuova strada realizzata perché “homines et animalia cum periculo commeabant- uomini e animali transitavano a rischio e pericolo.”
Ma se si è fermato a questo punto significa che i nuovi rischi non erano quelli del Malpasso, e comunque non erano i problemi che Hermias, a ragione, pensava di aver superato, ma quelli che si erano formati a valle, (a Masareit?) forse a seguito della piene che avevano asportato la strada (come quella che nel 1729 costringerà addirittura a spostare l’abitato di Timau!).
Una situazione certamente preoccupante che decise Apinio a cambiare versante. Lasciò la destra orografica per salire a sinistra, sotto al Pal Piccolo, per poi, alla fine del suo nuovo percorso deviare per scendere di qualche metro, sotto l’attuale casa cantoiera, e collegarsi con la strada esistente di Respecus ed Hermias (è il percorso del sentiero cai 161).
In questo modo si riabilita anche Hermia, che è stato sbeffeggiato per aver fatto una opera eterna, che dopo solo 70 anni si dovette rifare.
Se le cose sono andate così, l’intervento di Apinio, non mise in discussione l’opera di Hermia che durerà invece fino a quando altri barbari in ritirata ripeteranno la demolizione del ponte fatta dai Quadi-Marcomanni.
Se le cose sono andate a questo modo, a questo punto è verosimile pensare che gli abitanti della Pannonia per raggiungere il confine che si era costituito verso la Diocesi italiciana, abbiano trovato più semplice realizzare una diretta che scendeva a incrociare la nuova strada di Apinio, invece che fare il giro per il Malpasso.
Si aprì così quella che ancora oggi va sotto il nome di strada romana e che anche Carpenedo attribuisce ad Hermia (io invece agli antenati degli attuali austriaci!) e descrive bene dicendo che si “inerpicava con sei piccoli tornanti sul costone delimitato dalla forra nella quale scorre il rio Collinetta, fino a raggiungere la quota del passo”. Un percorso che è stato dissestato dagli interventi per realizzare i tornanti della strada moderna, che andrebbe recuperato e risistemato e che comuque anche Koban indica come la prosecuzione della “munificentia” e non come Hermia.
Come ricorda il Grassi c’erano così due strade “una carreggiata l’altra pedestre. Quella conducendo per le pendici del monte Collina ascendea per quella di Collinetta alla cima del monte di Croce, questa comoda in oggi anche per cavalcare, senza staccarsi dal monte stesso, passava per il piano su cui tenevasi tra Tedeschi ed Italiani anualmente un famoso mercato, chiamato perciò ancor oggidì in lingua alemanna Alta Mark, ciè mercato vecchio. Ma poi quale delle due strade sia la più antica non si può additare..
Ma nel frattempo, almeno sotto il profilo economico e sociale era già iniziato il Medioevo, la strada che progetta Apinio non ha le caratteristiche di quella militare di Cesare o di quella commerciale della via dell’ambra. Il fatto che, come scrive, si preoccupi del passaggio degli animali, (homines et animalia cum periculo commeabant) ci fa pensare che forse era già iniziato l’utilizzo dei pascoli alti con le malghe: la strada doveva arrivare al confine, ma anche servire al transito del bestiame.
Per questo quella di Apinio che ci è rimasta con il nome di strada romana non ha anulla a che vedere con quella che deve essere stata la vera strada romana del periodo d’oro di Julium Carnicum e dell’Impero Romano, simile a quella sistemata da Respectus.
Una strada per la quale gli storici sono incerti anche sul nome. Il Gregorutti in Archeografo Triestino chiama Julia Augusta la via fino a Gemona poi propone il nome di Claudia da Tiberio Claudio
Anche io (a pag. 53) propendo per il nome di Via Claudia, piuttosto che di Julia Augusta, come collegamento diretto tra Iulium Carnicum e Julia Concordia, sempre in riva destra del Tagliamento, per superarlo ad Amaro, prima della confluenza con il Fella.
Mentre per il percorso da Julium Carnicum a Timau propendo per ritenere (come riporto a pag 67) come principale, quella che Alfio Englaro considerava una alternativa, quando scriveva che:
La strada parallelamente o precedentemente alla Via Claudia o Carnica, partendo da julium Carnicum risaliva la sponda destra del But, raggiungendo Ognissanti (Sutrio), attraversava il Gladegna sul ponte Gjai e lambiva Cercivento per salire a Enfretors e raggiungere Ramazàs Valacòz e poi Cleulis.
Salire sulla destra del But oggi sembra impossibile ma, come conferma il geologo Venturini si deve tener presente che la morfologia della valle del But è stata sconvolta dal conoide di deiezione del monte Cucco ad Alzeri
Avrebbe cominciato a formarsi circa nel 3000 a.C in concomitanza con lo svuotamento del grande lago di Sutrio e Paluzza il cui livello delle acque era a 600 m.
Ma poi, in epoca romana, (datazione sulla torba della centralina di Noiaris II sec.d.C.) l’espansione del conoide con relativo falsopiano verso ovest aveva finito per creare un nuovo invaso, seppure di più modeste dimensioni; il lago di Soandri con livello intorno al 540. Infine dopo il XV secolo si è determinata una inversione di tendenza, probabilmente causata dallo svuotamento del Soandri con il rio Randice e la But che hanno dato inizio a una fase recente di approfondimento erosivo.
Ma tornando alla strada che sale al passo, da quanto si è detto, è fuori di dubbio che la vera strada romana saliva sul versante di fronte al Pal Piccolo. Chiara indicazione anche per gli ingegneri moderni a evitare che le pendici in sfacelo del Pal Piccolo, ripetano la situazione del “periclitante populo”.
Saliva con un percorso simile a quello che i geologi Venturini e Comin suggeriscono di seguire per realizzare una pista forestale che diventi pista di emergenza mentre sono in corso i lavori di sistemazione dell’ attuale strada, o di quelli che si renderanno necessari per realizzare una variante come suggerito dall’ing. Puntel o di quelli di più lungo periodo che sarebbero necessari nel caso si trovasse un accordo per superare le difficoltà tecniche ed economiche che impediscono la soluzione radicale del traforo, ottimale da tanti punti di vista.
Aggiungerei soltanto che, superate le emergenze, la pista deve essere vista come ciclovia a carattere turistico-culturale e per questo realizzata d’intesa con la Soprintendenza archivistica per receperare e valorizzare i resti della strada romana.
Non credo ci sia un modo migliore per valorizzare la strada storica che quello di una pista realizzata facendo attenzione a recuperare i resti della vecchia strada da percorrersi in bicicletta (meglio in e-bike!) con la possibilità di fermarsi quindi ad ammirare i resti della strada antica messi in luce e valorizzati costruendo la pista.
Per questo quindi “d’intesa con la Soprintendenza” ma se questo ente dovesse far prevalere le esigenze di conservazione e quindi imporre il “non si tocca”, per evitare un inutile conflitto, sarebbe il caso, senza mai citare la strada romana, di pensare ad una strada forestale per servire le malghe di Val di Collina e di Collinetta, collegando le due malghe, per arrivare al passo dai pascoli di quest’ultima.
La strada del passo dal Medioevo ad oggi.
Si ha motivo di ritenere che nel Medioevo siano state mantenute in esercizio entrambe le strade per il ruolo che comunque continuava ad avere il passo.
Nel 1077 è per merito del passo che il Patriarca Sigeardo ottiene dall’imperatore Enrico IV di diventare Vescovo-Conte di Aquileia.
All’imperatore sceso a Canossa per ottenere la cancellazione della scomunica i Principi ribelli avevano impedito il rientro per i passi alpini. Fu Sigeardo che gli concesse il passaggio attraverso Monte Croce.
Passo che ebbe una grande importanza sotto i primi patriarchi “ghibellini” generalmente di origine tedesca e quindi filoimperiali, in collegamento stretto con Salisburgo.
La storia del passo ha invece avuto un cambio repentino nel 1250 con il Patriarca Bertoldo di Andekt Pomerania che cambiò fronte e diventò “guelfo” filopapale, ma soprattutto, per quanto ci riguarda, decise di rendere carrabile la strada per il canal del Ferro, ponendo le basi per lo sviluppo che avrà in seguito Venzone e Gemona.
Per i Patriarchi successivi quindi la Carnia diventò una colonia marginale e periferica dalla quale riscuotere tasse, avendo Tolmezzo come centro per la riscossione.
Il passo divenne quello dei Kramàrs prima e degli emigranti dopo, che, transitavano a piedi, al massimo a cavallo, e quindi non più carrabile per mancanza di manutenzione.
Così con Venezia, come poi con l’Austria e infine anche con la Italia, quando si decise di intervenire sulla strada per il Mauria, (inaugurata il 1890).abbandonando Monte Croce.
Forse non era rotabile ma molto utilizzato a piedi, per gli stretti rapporti tra Carnia e Carinzia, (lo stesso Jacopo Linussio fa il garzone in Carinzia).
Come annota don Roia nel 1830 con la Carnia nell’Impero Austroungarico “si stava studiando un progetto di ricostruzione della strada per il passo, ma poi non se ne fece niente. Invece fu evidente il contraccolpo in negativo che la strada subì nel 1836 a seguito della ricostruzione della strada nazionale pontebbana che venne evidentemente poi preferita per il collegamento con l’Austria. Ancor maggiore il contraccolpo per la costruzione della ferrovia Udine Tarvizio (1875-79).
E si arriva così alla prima guerra mondiale quando il passo inciso tra il Cellon e Pal Piccolo torna purtroppo a diventare importante come fronte di guerra.
Nel 1907 gli austriaci cominciano ad avere dei dubbi sugli italiani che davano l’impressione di voler cambiare l’alleanza e si prepararono al peggio sistemando la strada di accesso. Pieni di speranza di pace nella iscrizione che si legge ancora scrissero l’auspicio “Possa essa servire al pacifico transito dei vicini paesi”. Ma le cose andarono per diversamente!
Gli italiani in guerra dovettero comunque accontentarsi della “via romana” sistemata e delle portatrici carniche. Il governo italiano non aveva dato peso alla richiesta di far diventare nazionale la strada di accesso con le motivazionì ben argomentate dal Marchi riportate da Carpenendo.
Scrive Gransinigh “alla testata della val but la situazione si presenta quanto mai fluida perché solamente all’ultimo momento viene deciso di portare la difesa principale sulle posizioni della displuviale anziché in corrispondennza della bastionata Monte Crostis-Monte Terzo.
“C’era una totale assenza di carrarecce e anche di mulattiere.”
Il capitano Gressel proprietario di Plochenhaus e capo di una sorta di guardia civile, il primo giorno di guerra sali al Pal Piccolo e “quando gli alpini timavesi scorgono il capitano si tolgono il cappello e gli augurano buongiorno” Sic!
Nel dopoguerra finalmente la strada rientrò nei piani di Mussolini di rafforzamento dei rapporti con la Germania e venne decisa dallo stesso che aveva preso nelle mani il ministero dei lavori pubblici.
Il progetto fu approvato il 1929 e la strada inaugurata il 30 giugno 1933, stranamente senza alcun riscontro sulla stampa locale. Perché, penso, paradossalmente rientrava nei piani segreti di Mussolini di rafforzamento del confine contro la Germania con il Vallo Littorio.
La ditta Paladini di Roma che aveva vinto l’appalto riportò al passo le tre scitte che i romani avevano lasciato sulle loro strade. La grande lapide è sormontata dalla lupa capitolina donata dal “Governatore di Roma” così si chiamava il podestà della capitale.
Le esigenze di carattere militare imponevano che ci si tenesse al coperto e si realizzò così a ridosso del Pal Piccolo, come riporta Carpenedo “una strada molto bella nel posto sbagliato”, a detta dello stesso direttore dell’Anas del tempo.
Che sia nel posto sbagliato lo si capisce a vista, da profani, ma viene confermato dalle relazioni dei geologi “un mix calamitoso che solo per una congiuntura favorevole non ha innescato finora anche una tragedia.(Venturini)”
Ma l’Anas ha deciso il ripristino, già in corso.
Mentre il buonsenso richiederebbe una variante sul tracciato della “vera” strada romana e se possibile un traforo, come si era auspicato negli anni 70 con la costituzione da parte della Regione della Società per il Traforo il gemellaggio Tolmezzo-Lienz.
Se il recupero della strada storica può avvenire come si è detto con una pista ciclabile, l’importanza che questa strada ha avuto per la storia della Carnia, (che non a caso per Molfetta prendee il nome di “ Via Commerciale”) può essere recuperata solo con una soluzione alternativa a quella che ha costretto il “periclitante populo” moderno, per motivi militari, a sfidare le cadute massi del Pal Piccolo in sfacelo.
Sia quella del progetto proposto già da anni dall’ing.Puntel, che si affiancherebbe alla pista ciclabile, o, ancor meglio, quella del traforo che non è andata in porto negli anni settanta del Novecento.
Questo insegna la storia. Ma come scriveva Gramsci è una maestra senza scolari. Non vorrei che, “all’italiana” si dovesse attendere che “scappi il morto” per capire la lezione. Mi dipiacerebbe che in futuro il passo di Mone Croce Carnico finisse per rubare la fama al ponte Morandi.